Giovanni Scanavacca
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La chiamavano
“Occhi di ghiaccio”
C’era, sul fianco della collina che sovrastava il paese, una villa isolata circondata da un parco ben curato. Ispiratrice inconsapevole di sogni e pettegolezzi la villa se ne stava là, avvolta nell’aura riservata alle cose misteriose e irraggiungibili.
Era sempre stata di proprietà di gran signori che non amavano la confidenza con il popolo e, per la gente, ormai era una specie di casa fatata, di luogo incantato, a dispetto di ogni precisazione o distinguo di quelli che si dicevano amici o conoscenti dei proprietari.
Non importava.
Erano cambiati i tempi, ma per la gente “Villa Paradiso” era la residenza privilegiata per pochi eletti.
Per questo, quando Laura era stata chiamata a prestare servizio lassù, quasi quasi non ci aveva creduto e aveva chiesto spiegazioni per ben tre volte, persuadendosi solo dopo aver sentito l’impiegato dell’agenzia spazientirsi:
“Insomma, signora, è lei che si è proposta come donna delle pulizie ed, eventualmente, baby-sitter. L’offerta è questa. Prendere o lasciare.”
Aveva accettato.
Nelle sue condizioni aveva poche scelte.
Franco era in missione, l’ennesima, anche se era riuscita a strappargli la promessa che sarebbe stata l’ultima.
“C’è il mutuo da pagare... no, no, non prendo rischi. Solo per stavolta… e poi è una buona occasione per far del bene.” Ed era partito.
Afganistan.
Prima c’era stato l’Irak e prima ancora il Kosovo.
Una vita a rischio, quella di Franco, con il sogno di tranquillità da vivere con Laura costantemente rinviato per imprevisti che sempre ne impedivano la realizzazione.
“Comincerò a lavorare anch’io. Deve finirla!” Si era detta lei, stufa della perenne attesa, del continuo timore sia di non sentire squillare il telefono, sia di sentirlo troppo presto.
Per fortuna c’erano le lettere a tenerle compagnia nei momenti bui.
“Ci si abitua a tutto, tranne che all’ansia.” Diceva spesso Laura. Per questo l’idea di lavorare, magari sfruttando la sua laurea in lettere, le era parsa buona e l’aveva portata ad avventurarsi su per la strada privata che portava al cancello di Villa Paradiso.
Subito dopo averlo varcato si era resa conto che, per una strana legge del contrappasso, là le cose erano assai differenti da ciò che l’immaginario popolare avrebbe voluto. Degli abitanti della casa per primo aveva conosciuto Ramirez, il cuoco, un sudamericano che, a volte, aveva visto aggirarsi per il paese e che tutto le ispirava fuorché fiducia. Non era andata meglio con la governante che l’aveva guidata con modi piuttosto bruschi dalla “signora”, la padrona di casa. A dire di lei molto più di ogni presentazione era bastato il soprannome che la servitù le aveva affibbiato “Occhi di ghiaccio”.
Laura si stava chiedendo quale necessità avesse quella donna di un’altra dipendente, ma Anna, “la signora”, la prevenne:
“Abbiamo richiesto la sua presenza perché Francesca, la nostra governante, ha deciso di lasciarci. Va da sé che il suo posto presto sarà vacante.” Spiegò. Uno sguardo alla faccia di Francesca fu sufficiente per intuire quali fossero le sue motivazioni.
Lì per lì Laura fu tentata di lasciare. Quell’ambiente non le piaceva: troppo snob la signora, troppo taciturni i dipendenti.
Poi, di colpo, decise di restare. Per sfida, forse. Per caparbietà, di sicuro.
Se fosse stata possibile un’analisi profonda del suo comportamento ne sarebbe emerso che quel suo voler restare a tutti i costi in quel luogo era il suo modo per essere vicina al suo Franco. Quella era la sua maniera di mettersi alla prova, di vincere la sua personale battaglia contro i sensi di colpa per aver permesso al marito di andare in missione ancora una volta.
Le bastarono due giorni per capire che là, nella casa sulla collina, c’era davvero un piccolo Afganistan.
“Occhi di ghiaccio” pretendeva da tutti l’impossibile, marito compreso e, a fronte dell’apparente serenità, quel luogo nascondeva rivalità inconfessabili e conflitti mai risolti.
Per questo la lettera di Franco costituì un piacevole diversivo.
Era la prima volta che le succedeva di rientrare stanca a casa sperando in un messaggio.
Avevano conservato l’abitudine a scriversi perché le telefonate con i satellitari erano sempre frettolose e spesso interrotte per motivi tecnici
“Il bello delle lettere è che si possono scrivere piano piano e leggere “a bocconcini” come i dolci più buoni.” Le aveva scritto una volta Franco dalla Bosnia, lasciando trasparire una serenità e una pace da notte di luna piena in riva al lago. E il fatto che quella lettera fosse stata scritta nella penombra di una postazione avanzata sotto un bombardamento era rimasto un segreto gelosamente custodito.
La nuova missiva non sfuggì al destino di tutte quelle che l’avevano preceduta e fu letta poco a poco.
A brani piccoli Laura ne imparò a memoria il contenuto tanto da saperlo ripetere anche in seguito ad ogni rievocazione degli avvenimenti di quello e dei giorni seguenti.
“Cara Laura,
il tramonto qui è sempre un avvenimento. Montagne, neve e, giù a valle, il deserto. C’è un fascino selvaggio e misterioso in questo luogo inospitale eppure attraente.
C’è vento qui. È il vento del deserto che la gente vuole custode di molti segreti. I bambini lo conoscono e lo aspettano perché il vento, dispettoso, può essere un buon compagno di giochi. Ci sono molti bambini qui, ma di loro ti parlerò dopo...”
Anche nella casa sulla collina c’era, doveva esserci un bambino. Laura lo aveva intuito da piccole tracce fugaci che Anna faceva scomparire in fretta. Lo aveva immaginato al momento dell’assunzione, considerando ciò che aveva scritto sul curriculum, ma poi aveva pensato di doversi ricredere.
“Oggi si occuperà del guardaroba.”
“Per domani saranno da riordinare le stanze a piano terra.” Erano alcuni degli ordini secchi di Anna, sempre impettita e preoccupata di non dare troppa confidenza alla nuova arrivata.
“Sapessi Franco, anch’io ho il mio generale.” Si era scoperta a dire Laura continuando la lettura della sua lettera.
“... i bambini qui non hanno niente e, se possibile, qualche volta hanno anche meno” continuava lui. “Qualcuno ogni tanto salta su una mina. I più fortunati volano via subito, rubati dal vento del deserto. Per gli altri il destino è terribile. Noi facciamo quel che possiamo, ma non è semplice.”
Quella frase le diede l’idea.
Forse parlando apertamente di bambini Anna si sarebbe sciolta. Il giorno seguente mise in atto il suo piano. Un fugace cambiamento di espressione della sua interlocutrice le disse che, forse, aveva colto nel segno. Se fosse stata più vicina, Laura avrebbe potuto vedere che lo sguardo di Anna si era velato, ma il suo repentino voltarsi da un’altra parte aveva nascosto ogni cosa.
Poi, di colpo, “Occhi di ghiaccio” parlò da madre:
“Anche da noi c’è vento e anche qui ci sono bambini con un destino terribile.”
Servirono molta pazienza e almeno tre, quattro giorni di domande caute, mezzi discorsi e rapidi dietro-front per capire la situazione.
Davvero là c’era un bambino a suo tempo voluto, in seguito difeso, protetto, vezzeggiato, ma quel bambino aveva un problema che né Anna, né Alberto, suo marito, erano riusciti a risolvere.
Alberto, alla fine, aveva gettato la spugna e si era concentrato sul lavoro e Anna, impotente e chiusa nel suo dolore era diventata “Occhi di ghiaccio”. E a Villa Paradiso era cominciato l’inferno, un inferno strano, in apparenza discreto, ma enorme, infinito e di continuo rimosso in ogni occasione pubblica nella quale Alberto ad Anna continuavano ad essere ammirati e invidiati.
“Leonardo è un bambino eccezionale.” Oppure: “Sta già prendendo le prime lezioni di musica.” diceva Anna, mentendo, ad amici e conoscenti che annuivano ammirati.
Invece...
A casa sua Laura continuava a parlare da sola e la lettera di Franco era sempre là, sul tavolo della cucina ad attenderla:
“Credo ti faccia piacere sapere che sono riuscito a combinare un trasferimento per Yusuf, uno dei nostri bambini. È talassemico. In Italia si può curare, forse potrà fare un trapianto di midollo, anzi, ne sono quasi certo. Per sveltire il tutto ho dato la disponibilità ad alloggiare lui e sua madre a casa nostra, per il tempo necessario ai primi accertamenti. Arriveranno circa il venti del mese prossimo. Spero di non crearti troppo disagio, ma forse un po’ di “movimento” ti farà piacere...”
Laura rilesse quel passo tre volte. Per il suo desiderio di far durare la lettera il più a lungo possibile, non l’aveva letto subito. Era già il diciotto. L’aereo sarebbe arrivato meno di quarantotto ore dopo. Franco non sapeva di Villa Paradiso, doveva essere una sorpresa: una rata di meno del mutuo è sempre una bella sorpresa e ora bisognava rinunciare. Senz’altro Franco aveva già fornito tutti i dati al comando per far arrivare quel bambino e, dal comando, di certo si sarebbero fatti vivi. C’era poco tempo.
Per questo Laura non si spaventò quando sentì il telefono: “Ministero della difesa.” disse una voce.
“Sì, so tutto. Cosa devo fare?” Rispose Laura.
“Come? Come fa a sapere?”
“Franco mi ha scritto...”
“Ah sì… purtroppo signora, non è di quello che le dobbiamo parlare. Questa è l’unità di crisi. Suo marito e alcuni altri suoi commilitoni sono caduti in un’imboscata. Pensiamo sia stato rapito, ma non abbiamo dati precisi.”
Laura dovette sedersi. Il tavolo, le sedie, le finestre della stanza, tutto si annebbiò e cominciò a girare.
“Signora, signora!” Urlava la voce al telefono: “Abbiamo avviato tutte le procedure...”
Poi, di colpo, come le capitava spesso nelle situazioni difficli, Laura si riscosse e prese la sua decisione:
“Quel bambino deve arrivare entro quarantotto ore! Qui doveva arrivare e qui lo dovete far venire!”
“Signora, non mi pare il caso...” Suggerì la voce.
“Invece sì. Fatelo venire qui e ditelo ai giornali, ai telegiornali, spiegatelo in arabo perché sappiano cosa fanno i nostri laggiù.”
Tanto fece che Yusuf e sua madre, nel bel mezzo di una crisi internazionale, furono portati a casa sua eludendo l’assedio dei giornalisti.
Di Villa Paradiso si dimenticò. Fu Anna a suonare alla sua porta in jeans e maglietta.
“Oddio... mi sono dimenticata...” Si giustificò Laura.
“Non ti preoccupare: sono venuta a darti una mano.” Rispose Anna. C’era una luce nuova nel suo sguardo. “Sono venuta perché devo capire come fai a...”
“È semplice: Franco ha organizzato questa cosa. È un suo progetto, perciò è anche mio. Una difficoltà non lo deve fermare.”
Fra lo stupore degli psicologi dell’esercito in quei giorni a casa di Laura si stabilì una strana solidarietà fra tre donne con tre problemi differenti e difficili.
A dispetto della lingua si capirono e il piccolo Yusuf fu portato dagli specialisti per le sue cure.
La lettera di Franco rimase sul tavolo della cucina fino a quando Anna non ne vide il secondo foglio, quello che nessuno aveva ancora avuto il tempo di leggere.
Proprio quel foglio la guidò nella conferenza stampa per l’appello ai rapitori. Anna aveva accettato di distrarre in quel modo i giornalisti dalla casa di Laura portandoli a Villa Paradiso al fine di permettere a Yusuf di raggiungere in fretta l’ospedale dove c’era la concreta possibilità di fargli il trapianto di midollo.
Iniziò piano a parlare, Anna. Un operatore strinse il primo piano sui suoi occhi, quelli di ghiaccio, ma subito dovette allargare l’inquadratura. Da qualche parte un bambino era uscito ed era andato a sistemarsi in braccio ad Anna che lo strinse a sé e continuando a parlare:
“Non farò appelli in senso stretto, ma mi limiterò a leggervi quello che Franco, il mio amico, il nostro amico Franco ha scritto a motivazione della sua azione.” E Anna vincendo la riluttanza a violare la privacy di Laura lesse:
“... sai, tesoro, c’è un gran silenzio qui. La notte siamo sospesi fra terra e cielo. Le stelle paiono più vicine e il vento si quieta per cedere il passo a una brezza leggera. Sono momenti fugaci eppure significativi.
So che Dio è nella brezza leggera e che qui la sua mano si è fermata un po’ di più a fare queste montagne che la notte rende indistinte seppure presenti.
Siamo operatori di pace travestiti da portatori di guerra, ma il nostro è un compito importante. Se Yusuf riuscirà a guarire si potrà provare a consolidare la collaborazione... chissà... servirà tempo, o solo un attimo, chi lo sa? Qui pare che nulla possa cambiare per l’eternità e, contemporaneamente, tutto possa trasformarsi nel volgere di un secondo...
Siamo qui per un’idea in apparenza insignificante. L’idea che ci guida è come il vento che soffia sul deserto: può andare lontano, può abbattere gli alberi, far giocare i bambini o solo far suonare le canne, ma nessuno lo può incatenare. Siamo al servizio del vento delle idee e come il vento dobbiamo portare dei piccoli semi per far nascere le foreste. La salute di Yusuf deve essere il nostro piccolo seme. Questo è lo spirito che guida gli operatori di pace.”
Sia il vento leggero a toccare il cuore dei rapitori di Franco e dei suoi compagni. Yusuf, che più o meno ha l’età del mio Leonardo che tutti vedete, è già qui e stamattina ha cominciato le cure per la sua malattia. Prego chi di dovere di avvisare che non abbiamo intenzione di rinunciare a offrire a uno, dieci, cento Yusuf la possibilità di vivere sani sulle loro montagne o ovunque.”
L’appello ai rapitori si concluse di colpo e fu proprio Leonardo per primo a battere le mani. Timidi anche i giornalisti fecero il loro applauso. L’operatore fu l’unico a notare il particolare più importante: Anna, Occhi di ghiaccio, stava piangendo. E l’immagine andò nell’etere.
Quello sguardo fu visto da Ramirez e Francesca per i quali cominciarono i dubbi su un giudizio affrettato. Alberto ritrovò gli occhi che l’avevano fatto innamorare. I concittadini si guardarono l’un l’altro senza riuscire a commentare.
E l’appello risuonò.
Dai minareti i muezzin urlarono la loro nenia ed esortarono.
E il vento del deserto soffiò forte per spegnere i fuochi dell’odio.
Servirono dei giorni.
Yusuf entrò in camera sterile. Anna finalmente, ebbe il coraggio di confidare a Laura che Leonardo aveva fatto quel giorno un gran passo avanti: per un bambino autistico comportarsi così era un miglioramento importante. C’era ancora speranza.
Quando dall’unità di crisi telefonarono per avvisare che il rapimento si era concluso Laura stava finalmente leggendo l’ultimo brano della lettera di Franco:
“Non posso concludere senza ricordarti ciò che lessi tanti anni fa:
se il seme non ha il coraggio di scendere nella terra non dà frutto;
se l’aquila non ha il coraggio di spiccare il primo balzo fuori dal nido non potrà mai volare in alto;
se l’uomo non ha il coraggio di alzare gli occhi dalla terra al cielo non potrà mai crescere;
se non hai il coraggio di amare non potrai mai essere.
Io spero di essere.
Ti amo, Laura.
L’ho appena urlato nel vento della notte per fartelo sentire.”
Il resto è la cronaca di un rientro, della fine di una brutta avventura, tranne, forse un particolare: il piccolo Yusuf è ancora a Villa Paradiso in convalescenza dove ha trovato un amico in Leonardo. Stranamente quei due si sono capiti subito con grave danno per l’ordine che Anna aveva voluto.
Yusuf parla arabo, Leonardo non parla italiano. Entrambi ridono nella stessa lingua, combinano guai all’unisono e, senza saperlo, si stanno aiutando.
Da qualche parte c’è un imam che si chiede dove sia scritto che Dio sta nel vento leggero.
Non lo aveva mai sentito dire prima.
Gli occhi di Anna mentre leggeva quelle frasi gli hanno detto che deve essere vero.
Il racconto ha vinto:
- Rosa d'argento (Arcade - Parole attorno al fuoco, 2009);
- Memorial Sermoneta (ROMA, 2010);
- Vp Concorso le quattro porte (Pieve di Cento);
- IV Concorso Altre voci - Thesaurus (Albarella, 2014).